Egli, stando per vocazione dalla parte del torto, non voleva sentire ragioni. A chi gli indicava la luna con un dito, replicava che quel dito poteva tranquillamente infilarselo nel culo.
Oh, la socialità, questo irresistibile desiderio di annusarsi reciprocamente le scorregge. La socialità coi suoi denti dolci da morire: pareva in essa compiersi ogni ipotesi di vita, ogni teleologia antropica.
Ma lui non stava al gioco, desisteva: parevagli il resistere pur sempre un adeguarsi all’arbitrio del dolce leviatano, un riconoscimento della sua signoria sul proprio comportamento.
Forse che non hanno ragione quelli lì, quelli dei suicidi di massa? Cos’altro è la stessa storia della terra se non un lungo (che poi lungo? E quanto lungo? E per chi tanto lungo? Per l’uomo? Ma fatemi il piacere!) cammino verso l’ineluttabile esplosione finale? Differentemente, i suicidi di massa non vogliono vivere la snervante attesa di questo lungo (Che poi quanto lungo? Ecc…ecc..come sopra) cammino verso l’esplosione finale, lo vogliono soltanto rappresentare. E rappresntandolo, lo muoiono, non lo vivono.
Bruciavasi la terra attorno per riscaldarsi dal gelo delle social catene (Val sempre la pena di citare il gran recanatese!).