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Poeta intimo e disperato, Camillo Sbarbaro, di una disperazione derivante dal suo sentirsi inadeguato al mondo, ma mai risolta, come in Campana e in Rebora, nello stridore dei versi, nell’evocazione apocalittica; bensì, nel ripiegamento, nella rinuncia totale alla mondanità, nel buon ritiro, confortato da poche piccole cose: il bicchiere di vino all’osteria, il paesaggio ligure fatto di “case, ammonticchiate come pecore contro l’acquazzone” (Voze), la passione per la botanica, sviluppata con tale dedizione da portarlo, autodidatta e con attrezzi da boy scout, ad avere collaborazioni con gli ambienti accademici di mezzo mondo. Per i licheni, “muffa più fungo, due debolezze che fanno una forza”, Sbarbaro aveva un interesse addirittura maniacale, giustificato dal loro essere poveri e modesti, ma coriacemente attaccati alla vita.
Poeta del levare, michelangiolescamente inteso, della ricerca certosina della nudità della parola, dell’autenticità. In questo, Sbarbaro mostrava un’assoluta coerenza col suo essere uomo, capace di rinunciare alla cattedra…
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