L’Antonin Artaud che ritornava a Parigi nel 1946 era poco più di un’ombra, un ammasso d’ossa e pelle con un alone di estraneità che aveva raggiunto una dimensione cosmica. Aveva passato gli ultimi nove anni internato nell’ospedale psichiatrico di Rodez; solo negli ultimi tre anni aveva potuto trovare sollievo nella scrittura e nel disegno, grazie alla sperimentazione di arte terapia del dottor Ferdiere; il resto lo aveva passato tra elettroshock ed altre atroci cure. Vi era stato rinchiuso dopo l’arresto per aver dato in escandescenza sul piroscafo di ritorno dal leggendario viaggio in Irlanda, alla ricerca del bastone di San Patrizio.
Nonostante la condizione psicofisica debilitata, Artaud non aveva rinunciato alla sua idea di rivolta che non riguardava tanto la contingenza storica da lui vissuta, ma le fondamenta stesse della tradizione culturale occidentale. Le sue travagliate vicissitudini erano il segno inequivocabile dell’ostilità che lo spirito della società borghese nutriva nei suoi confronti, in quanto ne riconosceva la sua potenzialità destabilizzante nei confronti del sistema. Questo, in sostanza, era il tema del saggio che contraddistingue quest’ultimo periodo dell’esistenza di Antonin Artaud: Van Gogh o il suicidato dalla società.
Artaud si era immedesimato nel genio olandese e rivendicava la supremazia del talento artistico sulla patologia, la quale altro non era che il buco nero in cui il genio veniva spinto dalla società proprio per annientare la sua deflagrante carica rivoluzionaria. L’eterna persecuzione contro i portatori di fuoco, sancita dai miti fondatori della civiltà occidentale (Prometeo, Cristo ecc.), inasprita ulteriormente dal funzionalismo materialista e dalla grettezza spirituale della società borghese.
Pur avendo abbandonato le velleità da attore (confinate agli anni venti, con le memorabili interpretazioni cinematografiche e la stagione del teatro surrealista) e di autore teatrale (dopo il fallimento del suo dramma I Cenci), il rientro parigino venne segnato da due eventi teatrali, benché entrambi rimasti incompiuti. Il primo fu la conferenza-spettacolo che gli amici parigini organizzarono al Teatro Vieux Colombier il 13 gennaio del 1947. Artaud, nonostante la cura nel preparare l’evento, non riuscì ad andare oltre all’emissione rapsodica di alcuni concetti emblematici della sua weltanschauung misti a glossolalie (frasi senza significato logico espresse in una lingua inventata), per concludere la performance comprimendosi energicamente il ventre ed emettendo un urlo straziato.
Il secondo evento fu la prevista messa in onda radiofonica del suo testo Per farla finita col giudizio di Dio, commissionato dalla radio francese e programmato per l’inizio del febbraio 1948. Per le registrazioni del programma, avvenute nell’ultima decade del novembre 1947, Artaud si avvalse della collaborazione degli stessi amici attori della serata al Vieux Colombier e utilizzò personalmente varie percussioni per la colonna sonora. Manco a dirlo, il programma venne bloccato dalla censura prima della messa in onda; solo a seguito delle proteste del mondo culturale francese, Radio France trasmise le registrazioni a circuito chiuso, solo per gli addetti ai lavori.
Antonin Artaud morì un mese dopo, nella sua camera della clinica di Ivry, alla periferia di Parigi, ignaro di quanto questi ultimi eventi della sua travagliata esistenza potessero diventare determinanti per la fortuna postuma della sua opera artistica e intellettuale. Un’opera in buona parte umiliata dalla cultura ufficiale sua contemporanea, ma destinata ad essere tra le più influenti dal secondo dopoguerra ai giorni nostri.
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