“A che i poeti in tempo di indigenza?” si interrogava Hölderlin, all’alba del XIX secolo; dove l’indigenza stava tutta nella scomparsa della sacralità della vita, dell’essere, obnubilati dalla nascente fede nel progresso tecnologico. Per Hölderlin, gli Dei erano fuggiti a causa del venir meno della capacità dell’uomo di comunicare con loro; il compito del poeta era di discendere nell’abisso, mettersi sulle loro tracce e indicarle al popolo. In questo, Hölderlin mostrava, insieme alla straordinaria qualità profetica e filosofica, un’incapacità ad oltrepassare il pregiudizio romantico dell’età dell’oro, di un passato idealizzato, visto come unico rifugio dalla miseria del presente. In termini leopardiani, si potrebbe tranquillamente parlare di pessimismo storico.
Oltre un secolo dopo, Rainer Maria Rilke, nel suo capolavoro lirico “Elegie Duinesi”, giungeva a ben diversi esiti. Le cose vengono messe in chiaro già dalla prima elegia:
…Ah, di chi mai ci possiamo valere? Degli angeli no, degli uomini no, e i…
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