Anche se il primo Manifesto del Teatro della crudeltà lo scrisse nel 1932, già dagli anni venti Antonin Artaud si mise in cammino su quel sentiero. La crudeltà di Artaud non aveva nulla a che vedere con lo splatter o il pulp; nulla a che vedere con certe autoflagellazioni cyber, fortunatamente passate di moda; nulla della spettacolarizzazione del macabro che, purtroppo, continua a godere di parecchia attenzione. La crudeltà di Artaud si manifestava nell’abbandono, nell’adesione totale alla verità artistica, nell’intransigenza radicale contro ogni concessione all’intrattenimento, allo psicologismo e all’asservimento sociopolitico dell’arte. Ne fa fede il polemico abbandono del gruppo surrealista, quando venne messa ai voti, nel 1926, l’adesione del gruppo al Partito Comunista Francese. Ne fanno fede le interpretazioni, poco più che cammei, in film epocali della fase matura del cinema muto europeo, come il Marat esanime nella tinozza da bagno nel Napoleone di Abel Gance(1927) e il frate Massieu misticamente luminoso ne La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer(1929).
Proprio il capolavoro di Dreyer, con la sua essenzialità formale nel rappresentare il martirio della Pulzella d’Orleans, gli suggerì il termine di crudeltà per identificare quel percorso di rivoluzione teatrale che avrebbe dovuto spazzare via il convenzionalismo psicologico del teatro borghese. Quando, nel 1931, all’Esposizione coloniale di Parigi incontrò l’urgenza primordiale e la metafisica dei segni dei danzatori balinesi, il concetto di crudeltà si espanse e la sua portata, da ribellione verso gli standard occidentali, divenne cosmica. Il successivo viaggio in Messico del 1936 e il soggiorno presso gli indios Tarahumara completò questo processo: l’altrove rivelato dalle danze balinesi non era più osservato con occhio esterno, ma raggiunto e partecipato nella Sierra dei Tarahumaras. In questo modo, Artaud si spogliò definitivamente del didascalismo ipocrita e ruffiano della tradizione occidentale, per aprire una via francigena verso le fonti sacre del teatro, dove la parola è strumento, non compimento, dell’atto. Un pellegrinaggio che Artaud non potè compiere fino in fondo a causa dell’isolamento, dovuto alla sua intransigenza e al suo disagio psichico, ma che venne sviluppato da giganti del secondo Novecento quali Jerzy Grotowski e Carmelo Bene.
L’ha ribloggato su pathos antinomia .
Antonin Artaud, il grandissimo. Uomo dall’innato principio di libertà dell’arte per la quale si è battuto fino all’umiliazione. Si deve al lui, alle sue geniali intuizioni e riflessioni, lo sdoganamento del teatro da stucchevole riproposizione delle gesta del quotidiano dettate dalla forza imperante dell’ ideologia borghesia ( come ancora insegna Molière) a straordinaria possibilità di addivenire ad altre realtà mentali, della possibilità dell’essere. Antonin Artaud nel suo eccezionale e dolente lavoro di ricerca consegna alla modernità uno dei più raffinati spiriti di sezionatura dell’animo umano per attraversarlo mentre fa ciò che naturalmente è. Senza frontiere e limiti spazio-temporali, ma spirito, posto nell’infinito a rappresentare lo scontro tempestoso e misterioso dell’io ed es la cui risposta è la poesia libera da scarti mentali. Idea quindi di purezza su cui far coincidere l’arte nuova, l’arte post-contemporanea. Grazie Antonin Artaud. F.to Alfonsina Caterino
L’ha ripubblicato su Albertomassazza's Blog.